“Chi sei?”, chiedo alla donna che
siede accanto al mio letto e mi guarda con degli occhi che credo di non avere
mai visto.
“Giuseppe, sono Luciana” mi dice.
Allungo la mano per stringere la sua, ma il suo sguardo s’incupisce. Non ne
capisco la ragione, fino a quando non pronuncia una frase che mi lascia
perplesso.
“Sono tua moglie, siamo sposati
da quarant’anni e hai il coraggio di dimenticare chi sono?”. Il suo tono di
voce si è fatto dolce, quasi canzonatorio e allora mi sento in diritto di
chiederle: “Perché non mi ricordo di te?”.
Cosa posso rispondere ad una
domanda come questa fatta da mio marito, il professor Galbiati, amatissimo
insegnante di lettere in pensione, ogni volta che varco la porta della sua stanza?
Dovrei forse dirgli: “La malattia ti sta rubando i ricordi e la tua memoria sta
lentamente diventando come una biblioteca senza libri. Ecco perché non sai chi
sono, ecco perché al termine di una lunga chiacchierata con nostra figlia le
hai detto “è stata gentile a venirmi a trovare, signorina” ”? In quel momento
mi è parso di vedere il suo cuore che si rompeva in mille pezzi.
“Forse è per il taglio di
capelli, l’ho cambiato. Sono andata stamattina dal parrucchiere e gli ho detto
che dovevo essere bellissima perché dovevo venire da te”. Questo mi ha
risposto. Frugo nella mia testa in cerca di qualcosa che mi ricolleghi a lei,
ma niente. Vorrà dire che sarà Luciana a parlarmi di noi.
La solita frase riecheggia
nell’aria: “Raccontami i miei ricordi”. La prima volta che l’ha pronunciata mi
ha spiazzata. Non credevo si potesse descrivere in modo così sintetico una
malattia che ti toglie, quasi all’improvviso, quello che ti rende ciò che sei.
Riassumere nel tempo concesso dall’orario delle visite una vita intera è
difficilissimo e all’inizio mi pareva impossibile, ma con il tempo e con
pazienza ho imparato.
Vedo che armeggia con la borsa,
da cui esce un libro piuttosto grande. “È un album, ci sono delle fotografie
che di sicuro ti piaceranno”. Se lo dice lei c’è da crederci, anche se io non
so bene che cosa mi piaccia e cosa no. Mi sveglio la mattina con la costante
sensazione di non essere al mio posto, tutti i giorni mi sembrano uguali e,
eccetto questa donna che oggi è venuta a farmi visita, qui non passa mai
nessuno a salutarmi. Solo medici, infermieri e altre persone che vivono qui
come me.
Passo tutti i pomeriggi da
Giuseppe ed ogni volta rispondo nello stesso modo alla sua domanda “perché non
mi ricordo di te?”, tanto so che l’indomani avrà scordato ogni cosa. L’ho amato
e lo amo moltissimo. Sogno ancora, anche se oramai sempre più di rado, che una
mattina mi sveglierò e me lo troverò accanto mentre mi sussurra “buongiorno,
raggio di sole” come faceva prima di tutto questo.
Luciana inizia a mostrarmi le
immagini della nostra vita insieme: più di tutte mi colpisce la foto in cui
siamo io, lei e Barbara, una bella bimba bionda di non più di cinque anni che mi
dice essere nostra figlia. Sorridevamo e questo vuol dire che eravamo felici.
Ma adesso? Adesso come stiamo? Lo chiedo a lei, che mi guarda come se le avessi
domandato di recitare a memoria l’incipit dell’“Eneide”... qualunque cosa essa sia.
“Sei felice, Luciana?”. Non è la
prima volta che me lo chiede ma, per la prima volta e dopo un’iniziale esitazione,
riesco a rispondergli con voce ferma; non c’è nemmeno l’ombra di una lacrima
che tenta di farsi strada tra gli occhi stanchi, non una pausa che indichi la
disperata ricerca delle parole più adatte. “Sì, Giuseppe, sono felice. E sono
felice perchè ci sei tu”. Mi alzo dalla sedia e mi sento leggera, come se
quella frase pronunciata tutta d’un fiato fosse stata capace di disintegrare il
peso insopportabile che porto sul cuore da troppi anni.
La guardo mentre si avvicina alla
porta e osservo i lineamenti del suo corpo: “Una venere di Milo, delicata e
perfetta. Ecco cosa sei, amore mio”. Si volta e mi sorride.
“Ti amo, professore” è stata
l’ultima cosa che sono riuscita a dirgli.
Il mattino dopo se n’è andato.
(Di: Jessica Passaro)
Tweet |
|