L’amore può e
potrà essere sempre paragonato ad un vaso d’argilla. L’argilla si sgretola
improvvisamente, dopo un tocco sbagliato, forse troppo irruento, e così è
l’amore, un giorno vivi la tua storia in piena armonia e il giorno seguente non
ci capisci più nulla, il vuoto intorno a
te, intorno a lei. Lei che il giorno prima era il tuo sole ed ora è solamente
una persona che non avresti mai immaginato potesse rivelarsi così. Delusione.
L’amore è delusione. Non si può vivere solo d’amore. Avevo iniziato così la mia
lezione sull’amore al mio nuovo ed alternativo corso universitario sui valori
della vita. E a fine lezione avevo ricevuto milioni di domande alle quali
nemmeno io ero forse in grado di saper dare una risposta. Ero diventato
professore dopo anni ed anni di studio e di lavoro. Un professore, la parola
esatta è apprendista. Il mio primo anno all’università non era stato rose e
fiori, non parlo di quando ero un innocente matricola. Sto parlando del
presente, del mio attuale lavoro e dei miei comizi, delle mie espressioni serie
su argomenti di cui nemmeno io ci capisco ancora niente. L’uomo si continua a
fare domande su come la gente possa comportarsi in un determinato modo, ma
raramente è in grado di trovare una reale risposta. Decidere su cosa e su come
vivere la propria vita è già un passo importante. Ma non sempre le scelte che
si intraprendono portano alla felicità e all’autorealizzazione. Tornavo a casa
compiaciuto di quello che ero riuscito a dire e dispiaciuto per aver accettato
il compromesso di ammettere solo 60 persone al mio corso. “Per i restanti ci
sarà una possibilità al secondo semestre”. Queste erano state le parole del
rettore ed io non potevo che accettarle. E tornando dopo un’ora circa di auto,
trovavo lei. La gioia della mia vita, colei che mi rendeva felice anche solo
con uno sguardo malandrino, colei che al mattino appena sveglia si strofinava
gli occhi e scendeva scalza correndo per andare a fare colazione con i suoi
biscotti preferiti. La figlia della donna che ho amato e che amerò per sempre.
La mia bambina che era in grado di sgridare la tata per non aver lasciato un
biglietto al suo papà con scritto dove fossero andate, se non le avessi
ritrovate a casa. Quella bambina che non avrebbe più potuto abbracciare la sua
mamma. La mamma, la mamma che ogni notte ripetutamente incontravo nei miei
sogni. Il suo pensiero mi dava la forza per andare avanti, quella forza
essenziale che mi occorreva per non mollare tutto. Ricordo perfettamente quella
notte. Era uscita con le sue migliori amiche. Serena e Anna, e la stessa notte
non sarebbe più tornata a casa. Ricordo perfettamente la telefonata alle 2 e il
rumore della pioggia che insistentemente sbatteva contro le finestre della
casa. Una telefonata che mi aveva terrorizzato, la polizia: Amanda era finita
in ospedale. Di corsa avevo chiamato subito il mio migliore amico Daniel. Non
avrei potuto lasciare la piccola Charlotte da sola in casa nel bel mezzo della
notte, la mia coscienza non lo permetteva. Velocemente arrivai in ospedale,
agitato, in preda al panico e tremante chiesi subito dove si trovava mia
moglie. Un auto, un ubriaco, il bagliore di due fari contro gli occhi di
Amanda, l’ultima cosa che aveva visto nella sua vita. Tre ore dopo, il dottore
uscì dalla stanza,mi chiese se fossi un parente della signora Amanda. Per un
attimo avrei voluto rispondere di no, avrei voluto dire che stavo solo sognando
e che mia moglie si trovava nel letto di casa a dormire. Ma questo non era uno
sogno, io non stavo sognando, lei non era a casa e quella notte di aprile non
la dimenticherò mai. “Amanda non ce l’ha fatta,
l’emorragia provocata dall’urto del cranio sul finestrino le ha fatto
perdere troppo sangue. Sono mortificato”. In circa venti parole quella notte mi
era stato detto che non avrei più vissuto nemmeno un istante della mia vita con
lei. Il vuoto. Il silenzio. Il buio nei miei occhi, nella mia testa. Non volevo
crederci. “Ditemi che sto sognando. Ditemi che sto sognando, Ditemi che sto
sognando cazzo!” Urlai contro le quattro persone che avevo intorno a me, che
non avevo mai visto e che non avrei voluto mai vedere. Digrignai le dita e
senza nessuno che riuscì a fermarmi diedi due pugni contro il muro. Il sangue
sulle miemi piaceva chiamarla. Così pronunciavo il suo nome, delirante e
sofferente mentre l’infermiera cercava di fasciarmi le mani. Non avevo coraggio
di tornare a casa, non avevo avvertito Daniel. L’avrei fatto il mattino
seguente, non volevo che si sarebbe preoccupato, e Charlotte non sarebbe potuta
restare da sola. Ogni notte alle 2.00 penso a quello che è successo,
svegliandomi improvvisamente nel bel mezzo della notte. Ogni volta che faccio i comizi,
così li chiamava lei, ai miei alunni penso a lei, vedo davanti a me i suoi
occhi verdi smeraldo identici a quelli della nostra bambina. Ogni volta c’è
lei, davanti a me, dentro di me. E il suo pensiero, la sua immagine, la sua
presenza immaginaria non se ne andrà. Lei c’è,
e per me non è un effimero ricordo. È per lei che voglio che la mia
bambina viva una vita serena, è per lei che mi sveglio tutte le mattine presto
per andare a lavorare. È con la sua foto sopra il comodino che mi addormento
tutte le sere,e quando Charlotte chiede di lei, dico che la mamma è uno
splendido angelo, troppo importante per vivere in questo mondo che troppo
spesso si rivela crudele. Ma la vita
continua, pur con tutte le difficoltà del mondo. Questo me lo aveva insegnato
lei, ogni volta che pensavo di arrendermi,e che mollavo la corda dicendo di non
potercela fare. Ed è così che il proprio cuore può frantumarsi in mille pezzi
come un vaso d’argilla dopo un colpo secco,ma indelebile è il suo ricordo, come
e dove è stato costruito non potrai scordarlo mai.
(Di: Federico Finali)
(Di: Federico Finali)
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