IL Vaso D' argilla - Federico Finali

       

L’amore può e potrà essere sempre paragonato ad un vaso d’argilla. L’argilla si sgretola improvvisamente, dopo un tocco sbagliato, forse troppo irruento, e così è l’amore, un giorno vivi la tua storia in piena armonia e il giorno seguente non ci capisci più nulla, il vuoto  intorno a te, intorno a lei. Lei che il giorno prima era il tuo sole ed ora è solamente una persona che non avresti mai immaginato potesse rivelarsi così. Delusione. L’amore è delusione. Non si può vivere solo d’amore. Avevo iniziato così la mia lezione sull’amore al mio nuovo ed alternativo corso universitario sui valori della vita. E a fine lezione avevo ricevuto milioni di domande alle quali nemmeno io ero forse in grado di saper dare una risposta. Ero diventato professore dopo anni ed anni di studio e di lavoro. Un professore, la parola esatta è apprendista. Il mio primo anno all’università non era stato rose e fiori, non parlo di quando ero un innocente matricola. Sto parlando del presente, del mio attuale lavoro e dei miei comizi, delle mie espressioni serie su argomenti di cui nemmeno io ci capisco ancora niente. L’uomo si continua a fare domande su come la gente possa comportarsi in un determinato modo, ma raramente è in grado di trovare una reale risposta. Decidere su cosa e su come vivere la propria vita è già un passo importante. Ma non sempre le scelte che si intraprendono portano alla felicità e all’autorealizzazione. Tornavo a casa compiaciuto di quello che ero riuscito a dire e dispiaciuto per aver accettato il compromesso di ammettere solo 60 persone al mio corso. “Per i restanti ci sarà una possibilità al secondo semestre”. Queste erano state le parole del rettore ed io non potevo che accettarle. E tornando dopo un’ora circa di auto, trovavo lei. La gioia della mia vita, colei che mi rendeva felice anche solo con uno sguardo malandrino, colei che al mattino appena sveglia si strofinava gli occhi e scendeva scalza correndo per andare a fare colazione con i suoi biscotti preferiti. La figlia della donna che ho amato e che amerò per sempre. La mia bambina che era in grado di sgridare la tata per non aver lasciato un biglietto al suo papà con scritto dove fossero andate, se non le avessi ritrovate a casa. Quella bambina che non avrebbe più potuto abbracciare la sua mamma. La mamma, la mamma che ogni notte ripetutamente incontravo nei miei sogni. Il suo pensiero mi dava la forza per andare avanti, quella forza essenziale che mi occorreva per non mollare tutto. Ricordo perfettamente quella notte. Era uscita con le sue migliori amiche. Serena e Anna, e la stessa notte non sarebbe più tornata a casa. Ricordo perfettamente la telefonata alle 2 e il rumore della pioggia che insistentemente sbatteva contro le finestre della casa. Una telefonata che mi aveva terrorizzato, la polizia: Amanda era finita in ospedale. Di corsa avevo chiamato subito il mio migliore amico Daniel. Non avrei potuto lasciare la piccola Charlotte da sola in casa nel bel mezzo della notte, la mia coscienza non lo permetteva. Velocemente arrivai in ospedale, agitato, in preda al panico e tremante chiesi subito dove si trovava mia moglie. Un auto, un ubriaco, il bagliore di due fari contro gli occhi di Amanda, l’ultima cosa che aveva visto nella sua vita. Tre ore dopo, il dottore uscì dalla stanza,mi chiese se fossi un parente della signora Amanda. Per un attimo avrei voluto rispondere di no, avrei voluto dire che stavo solo sognando e che mia moglie si trovava nel letto di casa a dormire. Ma questo non era uno sogno, io non stavo sognando, lei non era a casa e quella notte di aprile non la dimenticherò mai. “Amanda non ce l’ha fatta,  l’emorragia provocata dall’urto del cranio sul finestrino le ha fatto perdere troppo sangue. Sono mortificato”. In circa venti parole quella notte mi era stato detto che non avrei più vissuto nemmeno un istante della mia vita con lei. Il vuoto. Il silenzio. Il buio nei miei occhi, nella mia testa. Non volevo crederci. “Ditemi che sto sognando. Ditemi che sto sognando, Ditemi che sto sognando cazzo!” Urlai contro le quattro persone che avevo intorno a me, che non avevo mai visto e che non avrei voluto mai vedere. Digrignai le dita e senza nessuno che riuscì a fermarmi diedi due pugni contro il muro. Il sangue sulle miemi piaceva chiamarla. Così pronunciavo il suo nome, delirante e sofferente mentre l’infermiera cercava di fasciarmi le mani. Non avevo coraggio di tornare a casa, non avevo avvertito Daniel. L’avrei fatto il mattino seguente, non volevo che si sarebbe preoccupato, e Charlotte non sarebbe potuta restare da sola. Ogni notte alle 2.00 penso a quello che è successo, svegliandomi improvvisamente nel bel mezzo della notte.              Ogni volta che faccio i comizi, così li chiamava lei, ai miei alunni penso a lei, vedo davanti a me i suoi occhi verdi smeraldo identici a quelli della nostra bambina. Ogni volta c’è lei, davanti a me, dentro di me. E il suo pensiero, la sua immagine, la sua presenza immaginaria non se ne andrà. Lei c’è,  e per me non è un effimero ricordo. È per lei che voglio che la mia bambina viva una vita serena, è per lei che mi sveglio tutte le mattine presto per andare a lavorare. È con la sua foto sopra il comodino che mi addormento tutte le sere,e quando Charlotte chiede di lei, dico che la mamma è uno splendido angelo, troppo importante per vivere in questo mondo che troppo spesso  si rivela crudele. Ma la vita continua, pur con tutte le difficoltà del mondo. Questo me lo aveva insegnato lei, ogni volta che pensavo di arrendermi,e che mollavo la corda dicendo di non potercela fare. Ed è così che il proprio cuore può frantumarsi in mille pezzi come un vaso d’argilla dopo un colpo secco,ma indelebile è il suo ricordo, come e dove è stato costruito non potrai scordarlo mai.

(DiFederico Finali)

                         

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