Da ragazza quei momenti di crisi profonda,
di angoscia, erano molto frequenti.Anche ora, che di anni ne aveva quasi quaranta;
le capitava di riviverli spesso. Ogni volta che le succedeva, le sensazioni
erano le stesse e, sempre, Giulia si ritrovava dietro al balcone della sua
cucina, immobile, a guardare il mare che si stendeva all'orizzonte.
Quel pomeriggio tutto era scaturito da una
banale discussione con il marito e, forse per un mobile che non funzionava bene
o forse per qualche altra cosa, avevano cominciato a parlare concitatamente.
All'improvviso tutto era precipitato: si erano rintuzzati, avevano litigato,
lei si era sentita sprofondare ed aveva cominciato, come le succedeva sempre in
quei momenti, a vedere la sua vita"al
negativo".
Ciò che la prostrava di più, era la
consapevolezza che, comunque, per lei sarebbe stato sempre così, perché in
realtà era la sua esistenza che non "girava" mai nel verso giusto.
Dietro quel balcone che la divideva dal Mondo e la rinchiudeva in una vita
grigia, limitata, senza gratificazioni, Giulia fissava il mare all'orizzonte. I
suoi occhi, ogni volta che si sentiva così, venivano catturati da quel mare che
il riflesso rosso del tramonto faceva apparire splendente, invitante. Neanche i
torrioni nuvole grigie che si allungavano dal Nord, riuscivano ad affievolirne
la bellezza.
Forse la "causa" del suo male era
tutta nel magnifico paesaggio del quale godeva da casa sua che poteva ammirare
ogni volta che guardava fuori dal suo balcone. Quando il marito lavorava in una
fabbrica di automobili a Torino, lei non aveva balconi e, dalle due finestre della
sua minuscola casa, non vedeva altro che grandi palazzi e piccole finestre. Da
quando era tornata al paese,dalla sua casa
sulla collina lo sguardo poteva spaziare
senza incontrare ostacoli e, attraverso quella pianura ricca di vegetazione,
riuscire ad immergersi in quel bellissimo mare blu. A volte, addirittura a
Giulia sembrava
di poter immaginare la vita degli abitanti di quelle case che
si trovavano là nella pianura. Quando si sentiva giù e pensava alla sua vita
grigia, immaginava che tutte le altre donne conducessero un'esistenza più
brillante della sua, più ricca di emozioni, di amicizie, di attività
gratificanti, di viaggi...
In realtà quella
casa, quel paese, le stavano stretti, la opprimevano. "Non mi fanno
respirare", diceva al suo medico, quando gli parlava del suo problema. Ma
nessuno la capiva, tantomeno il marito, che la
considerava ancora "una
donna viziata che ha avuto tutto dalla vita e non sa apprezzarlo". Lui
risolveva quei brutti momenti con un regalo, con una litigata, con una
concessione. Pensava che quei piccoli abusi che le permetteva e tutte le
trasgressioni che lei si concedeva di nascosto (ma che lui conosceva bene),
potessero essere sufficienti a mantenerla buona e tranquilla.
Quella sera era
particolarmente agitata e sentiva forte il bisogno di immergersi nella
confusione, vedere facce nuove, fare qualcosa di diverso, poter, anche se per poche
ore, uscire dalla quotidianità che il paese le aveva cucito addosso. Il marito capì
e, con la scusa di un improvviso impegno di lavoro, la lasciò libera. Lei
scappò in città, a Salerno. Girovagò senza una meta, jeans sdrucito e t'sheart
aderente, tra i vicoli ambigui del centro storico. Aveva l'aria di donna
vissuta, inquieta, che si trascina dietro l'insoddisfazione di una vita troppo
grigia e il desiderio di vivere nuove emozioni. Appariva, agli occhi delle
persone che la incrociavano, come una in cerca di avventure. Forse fu proprio
quello che autorizzò quell'estraneo ad avvicinarsi sfacciatamente e a prenderla
sottobraccio. Lei restò meravigliata, poiché, davvero, non era cosciente del
messaggio che lanciava il suo corpo in
quel momento. Cercò di divincolarsi e,
nel farlo, guardò in faccia l'uomo. Era uno sulla quarantina, alto, vestito
bene, gli occhi intriganti e sorriso di chi, da un pezzo, sa cosa vuole dalla vita.
Stringendole il braccio in modo molto confidenziale, le sorrise e disse:
"Si vede che hai proprio bisogno di un buon caffè. Sei fortunata perché,
davanti al migliore bar di Salerno, hai incontrato un vero esperto…".
Giulia aveva fumato parecchio perciò si sentiva un po' stordita. Inoltre, non
aveva molta voglia di pensare... Lo guardò e, senza riflettere troppo, si
ritrovò seduta con lui al tavolino di quel bar del centro: poca gente intorno,
ambiente discreto, luci soffuse. Lei rideva con facilità, lui parlava...
parlava... Oltre al caffè bevvero parecchi aperitivi e così, pian piano, Giulia
cominciò a sentirsi più rilassata. Andrea, così si chiamava l'uomo, l'invitò a
cena e lei non trovò alcun motivo valido per rifiutare. Il locale dove andarono
era veramente squisito: ambiente e musiche arabeggianti, luci basse, cameriere
molto discrete, vestite come danzatrici orientali. Andrea scelse un tavolino
protetto da un séparé e ordinò subito da bere. Lei si guardò intorno
distrattamente e, in un angolo, vide una arabo che, seduto a gambe incrociate
su un cuscino, aspirava da un narkilè per poi espirare un fumo bianchissimo e
dolciastro. Era una nota di colore molto caratteristica ed anche efficace, infatti
lei guardò la scena e restò abbagliata da quell'uomo dallo sguardo intenso.
Anch'egli la fissò e,con un sorriso enigmatico, la avvolse in una nuvola di
fumo. Giulia aspirò ad occhi chiusi e si sentì ancora più leggera, con la mente
completamente sgombra di pensieri e preoccupazioni. Quasi le sembrava di essere
un'altra donna, più sensibile, libera da inibizioni e pregiudizi, più rìcettiva,
pronta a cogliere le sensazioni ed i bisogni che si facevano prepotentemente
spazio dentro di lei.
Mangiarono poco,
bevvero tanto e, alla fine, erano veramente storditi tutti e due. Ad un certo punto
della serata, Giulia sentì su di lei uno sguardo irresistibile. Si girò e vide
l'arabo farle cenno di avvicinarsi. Anche Andrea colse quel messaggio e, benché
non fosse indirizzato a lui, si alzò e, insieme, andarono a sedersi sui cuscini
posti intorno al narkilè. L'uomo le passò il bocchino e lei aspirò... poi lo
cedette ad Andrea. Fecero parecchi giri. Nel frattempo il locale si era
svuotato e le luci erano state spente, era rimasto illuminato solo l'angolo
dove i tre fumavano. Si era creata un'atmosfera irreale, quasi magica. Più che
su cuscini colorati, sembravano seduti sui petali di un enorme fiore dai colori
intensi carnosi... Nessuno parlava. L'arabo non sembrava accusare gli effetti di
quelle droghe leggere, alle quali ormai era assuefatto e, senza tregua,
aspirava e passava il narkilè a colui che gli era seduto a fianco. Giulia e
Andrea, invece, erano ormai completamente fuori dallo spazio e dal tempo,
occasionali visitatori di un pianeta sconosciuto, abitato solo da quell'arabo
misterioso. I loro gesti si facevano sempre più lenti, più ovattati e, intanto,
i pensieri si allontanavano lentamente dalla quotidianità, per diventare cosmici,
surreali.
Ad un certo punto l'arabo si alzò e la prese
per mano, anche Andrea li seguì. Uscirono dal locale attraverso una
porta-finestra e si trovarono in riva al mare. Intorno non c'era nessuno, le
finestre dei palazzi vicini erano al buio, segno che la gente stava già
dormendo. Anche se ci fossero stati cento spettatori, nessuno dei tre si sarebbe
fermato, forse non ci avrebbero neanche fatto caso. Tra loro s'era attivato una
specie di circuito che permetteva ad uno di capire cosa desiderava l'altro in
quel momento. Lei provava sensazioni bellissime. Non capiva cosa stesse facendo
il suo corpo, ma capiva che il suo spirito era veramente felice.
Si risvegliò sola,
in una camera che non conosceva. Fece per alzarsi ma si sentì stanca, così tornò
a distendersi. Dov'era? Con chi aveva trascorso la notte? Non sapeva rispondere
a quelle domande e si rabbuiò, ma solo per un attimo.
Subito si rese conto
che dentro si sentiva serena, appagata. Mai si era sentita così. Si
riaddormentò.
Quando si svegliò
definitivamente, fuori il sole era già alto. Si alzò, si vestì, uscì. Scese per
una scaletta poco illuminata e si ritrovò nello stesso locale dove aveva cenato
con Andrea. Anche l'arabo era allo stesso posto, i suoi occhi erano sempre profondi
ma... Giulia non ne fu più attratta, forse perché non era più la stessa.
Uscì, ma
non aveva voglia di tornare a casa sua. Girovagò ancora per la città,comprò
qualcosa per i bambini poi mentre usciva da un negozio incrociò un pullman
della Sita, vi salì e si sedette in fondo, nella penombra. "Un biglietto
per dove?" le chiese il fattorino scrutandola incuriosito, "Serre,
solo andata" rispose lei, senza neanche guardarlo in faccia. Non aveva
voglia di parlare con nessuno. Aveva tanto da pensare.
Arrivò a casa che
era già sera inoltrata. "Adesso torni" le sibilò la suocera vedendola
entrare. Lei non rispose e se ne andò in camera. I bambini già dormivano.
Angela, la piccolina
di appena due anni, si era infilata nel letto del gemello Nunzio e Mario, il
più grande, sul viso da ometto di dieci anni, aveva la solita espressione
corrucciata, da "duro".
Giulia, sorridendo, li accarezzò tutti e tre
poi andò a coricarsi ma, prima, non poté non vedere come la suocera, senza parlare,
la spiava con occhi tristi e, nello stesso tempo, ostili, pieni di rimprovero.
Il marito non era ancora rientrato:
"Meglio
così..." pensò lei e si infilò sotto le lenzuola. Quando il mattino dopo
si alzò, i bambini erano già pronti per andare a scuola. La suocera, in cucina,
rimproverava la piccolina perché non aveva ancora bevuto il latte. Il suocero,
sotto sotto, strizzava l'occhio alla nipotina che sorrideva felice. Poi tutti
si avviarono verso l'automobile, nessuno fece caso a Giulia, solo Mario si girò
e, vedendola, si rabbuiò in viso. Lei gli fece un cenno con la mano ma lui non
rispose, si infilò nell'auto e chiuse lo sportello. Anche la suocera fece finta
di non vederla e, energica, si mise a sfaccendare come sempre.
Giulia si sentì
completamente esclusa e, amareggiata uscì di corsa per fare delle commissioni
che sbrigo in poco tempo poi rientrò subito. Quando si sentiva in crisi, non
amava girare per il paese, né farsi vedere. Forse la rattristava ancora di più
guardarsi intorno e vedere quelle quattro case scrostate, a lei così ostili.
Per le persone poi nutria vera e propria invidia. Non capiva come gli altri
potessero continuare a vivere in quel posto senza emozioni e sentirsi anche
sereni, appagati. Mentivano? Era lei, solo lei, l'unica che non riusciva a
vivere bene là? "Perché non riesco ad amare la mia vita, questo paese,
questa gente?” si diceva, avvilita, non riuscendo a darsi una risposta. Era
certa, però, che non poteva continuare a vivere in quel modo, che stava facendo
del male ai suoi familiari ed a se stessa. Aveva sposato un uomo che l’amava
molto ed al quale era affezionata, ma non bastava. Inoltre, l'esperienza avuta,
le aveva fatto capire che ormai era tanto disperata da lasciarsi trascinare in
qualsiasi pericolosa avventura. Per fortuna era ancora tanto lucida da capire
che né in quel locale notturno insieme all'arabo né con Andrea, lei avrebbe
potuto ritrovare se stessa. "Non posso più aspettare” si disse. Ormai
aveva capito che era giunta l’ora di prendere una decisione, per il bene di
tutti.
Quella sera, di nascosto, mise in un borsone
poche cose: qualche maglietta, un jeans, il suo diario, l'orologino d'oro che
le aveva regalato il papà il giorno della sua prima comunione, il biglietto che
le aveva scritto suo figlio Mario, quando aveva cominciato ad andare a scuola.
Nella borsa non mise neanche una foto: "Non servono fotografie per
ricordare le persone che si amano", si disse sottovoce. Quando pensò di
aver messo tutto a posto, andò a sedersi al suo scrittoio, prese dei fogli, una
penna e, lentamente, cominciò a scrivere all’ unico uomo che veramente contava
nella sua vita: "Mario, figlio mio.." e continuò per molto tempo.
Scrisse tra le lacrime, poi, senza rileggere, piego i fogli e li rinchiuse in
una busta sulla quale scrisse "Mario questa lettera è per te, dovrai
aprirla il giorno del tuo diciottesimo compleanno". Si alzo e andò a
coricarsi.
Pianse molto quella sera perché. la
decisione che aveva preso, se pur necessaria, era veramente molto dura e dolorosa.
Quella notte dormì pochissimo, dormì male. Sognò una bimba felice che si
trovava in un prato immenso. Rincorreva l'oggetto della sua felicità: un
aquilone che, bello e coloratissimo, si librava nell'aria leggero, senza
vincoli oltre il filo sottile che lo legava a lei. Ma, all’ improvviso, una
folata di vento le strappò il bel giocattolo dalle mani e, violentemente. lo
trascinò lontano: La bimba scoppiò in un pianto disperato.
Apparvero tante
persone che, guardandola addolorate mormorarono: "Poverina come piange...
E'veramente addolorata ed ha ragione: non potrà mai più essere felice... ne
sorridere... ne amare... Ha perso per sempre la sua libertà! ".
Fu un incubo. Giulia si svegliò prestissimo,
triste ma profondamente decisa a fare quello che aveva progettato. Si preparò
con calma, prese le borse, entrò nella camera dei figli e mise la lettera sul
comodino di Mario. Li abbracciò tutti e tre con uno sguardo carico d'amore e,
senza toccarli neanche, per paura di svegliarli, andò via.
Sali sul pullman
delle 5,30, diede un'ultima occhiata alla sua casa, a quel paese che lei non
aveva mai capito e mai amato, poi, con gli occhi velati dalle lacrime, andò a
sedersi da sola. Le si avvicinò il fattorino e le chiese: "Dove va?".
Giulia, sovrappensiero, rispose: "Vado a riconquistare il mio
aquilone...". Il poverino la guardò incredulo ma lei si corresse subito:
"Mi scusi... un biglietto per Salerno... solo andata!".
C'era riuscita,
adesso si sentiva più serena. Poteva cominciare a sperare che presto avrebbe ri
trovato il suo "aquilone". Andava via ma sapeva che, appena fosse
diventata più sicura delle sue emozioni e avesse riconquistato fiducia in se
stessa, sarebbe tornata. Solo così, finalmente serena, anche lei come le altre
mamme, avrebbe vissuto per tutta la vita con i suoi figli, nella sua casa e nel
suo paese. Non si sarebbe sentita mai più un'estranea.
Doveva andare via,
allontanarsi da tutti, per poter "crescere", capire, conoscere la
vita e diventare una vera donna. "Aspettami Mario, tornerò presto e sarò per
sempre davvero la tua mamma".
(Di: Cristina Morriello)
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